Sommando il debito pubblico ai debiti delle famiglie e delle imprese, in tutti i paesi industrializzati l’indebitamento complessivo supera il 200 per cento del prodotto interno lordo. Perché? A partire da questa domanda cruciale, che tuttavia nessuno ha mai posto, si sviluppano i contributi all’analisi della crisi in corso e le proposte per ridurne le conseguenze devastanti, riuniti nel volume collettivo Crisi economica, debiti pubblici e decrescita felice, pubblicato dalle Edizioni per la decrescita felice, a giorni in libreria.
L’indebitamento complessivo dei paesi industrializzati, rispondono gli autori del volume, è necessario per assorbire la produzione crescente di merci che altrimenti rimarrebbero invendute. In altre parole la crescita della domanda, che pure è stata costante, non è in grado di assorbire la crescita dell’offerta perché la concorrenza internazionale impone alle aziende di investire continuamente in innovazioni tecnologiche che accrescono la produttività, che consentono cioè di produrre quantità sempre maggiori di merci con un numero sempre minore di occupati.
Ma se si riduce il numero degli occupati, si riduce il numero delle persone provviste di reddito, per cui la crescita del debito è diventata indispensabile per sostenere la domanda. Il meccanismo della crescita e l’incremento della competitività sono la causa della crisi in corso. Tutti i tentativi di rilanciare la crescita e di incrementare la produttività non solo non possono consentire di superare la crisi, ma se riuscissero, contribuirebbero ad aggravarla. Questa crisi, si sostiene nel libro, non è una crisi congiunturale, ma una crisi di sistema che gli strumenti tradizionali della politica economica non sono in grado di affrontare perché se si vuole rilanciare la crescita, come viene ripetuto con la ripetitività di un mantra, non si possono non aumentare i debiti pubblici; se si vuole ridurre il debito pubblico si deprime la domanda e la crisi si aggrava. Ciò che occorre è trovare il denaro per gli investimenti senza accrescere i debiti pubblici.
Questo denaro si può ricavare soltanto dalla riduzione degli sprechi, ovvero dallo sviluppo di innovazioni tecnologiche finalizzate ad accrescere l’efficienza con cui si usano le materie prime, in particolare l’energia, e a recuperare le materie prime contenute negli oggetti dismessi, che del tutto impropriamente vengono definiti rifiuti. In altre parole occorre uscire dalla logica quantitativa nella valutazione della produzione e utilizzare criteri di valutazione qualitativi. Non proporsi di produrre di più, ma di produrre quello che serve. Per esempio, il nostro patrimonio edilizio consuma mediamente per il riscaldamento invernale il triplo dell’energia delle meno efficienti case tedesche, 200 kilowattora al metro quadrato all’anno invece di 70, e dieci volte di più delle più efficienti, che si fermano a 15.
Nella (in) cultura della crescita si diceva “quando tira l’edilizia, tutta l’economia gira”. Oggi si può pensare di uscire dalla crisi costruendo altre case, quando l’eccesso di offerta incrementa in continuazione l’invenduto? L’unica strada per rilanciare l’edilizia è la ristrutturazione energetica delle case esistenti. Se il consumo delle case scendesse dei due terzi si risparmierebbe il denaro necessario a pagare gli investimenti e ad accrescere l’occupazione senza accrescere i debiti pubblici. Ma se i consumi energetici delle nostre case si riducessero dei due terzi diminuirebbero da subito le emissioni di anidride carbonica e, una volta ammortizzati gli investimenti con la riduzione degli sprechi, diminuirebbe anche il prodotto interno lordo. Un’efficiente raccolta differenziata, finalizzata al recupero delle materie prime contenute negli oggetti dismessi, consentirebbe di risparmiare le enormi somme di denaro che vengono spese per seppellirli sotto terra o per distruggerli bruciandoli, e con il denaro risparmiato si possono sostenere i costi d’investimento e l’occupazione necessari a organizzare un’efficiente raccolta differenziata e le industrie del riciclaggio. Ma se si riutilizzano le materie prime contenute negli oggetti dismessi diminuirebbe da subito il consumo di materie prime e, una volta ammortizzati gli investimenti, diminuirebbe il prodotto interno lordo.
Per superare la crisi senza accrescere i debiti pubblici, sostengono gli autori del libro, occorre sviluppare un pensiero più evoluto di quello che si limita a perseguire la crescita della produzione in quanto tale e la crescita dell’occupazione in quanto tale. Bisogna creare occupazione in lavori utili e la cosa più utile da fare in questa crisi, che è contemporaneamente economica ed ecologica, è ridurre il consumo delle risorse e le emissioni inquinanti sviluppando le innovazioni tecnologiche che ci consentono di stare meglio riducendo i consumi inutili, perché questo è l’unico modo di recuperare il denaro necessario allo sviluppo di quelle innovazioni. Less and better.
di Maurizio Pallante
Il Fatto Quotidiano, 17 Febbraio 2012
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RISPOSTA DI FELTRI:
La decrescita totalitaria
Si parla parecchio di decrescita in questo periodo e forse è comprensibile, visto che il Pil scende un po’ ovunque e qualunque teoria che sostenga che “meno è meglio” viene vista con un interesse. Ho vinto la mia ritrosia e ho letto un po’ di cose. L’idea che mi sono fatto è che la decrescita oscilla tra due poli: quello del banale buon senso e la deriva totalitaria.
La banalità, per quanto di buon senso, è riassunta nell’articolo di Maurizio Pallante sul Fatto di oggi. Pallante non è un economista, stando a Wikipedia è laureato in lettere, quindi non cita dati o ricerche a sostegno delle sue tesi. Che però mi sembrano comunque convincenti, anche se non certo originali: meglio favorire le ristrutturazioni edilizie che fanno risparmiare energia invece che cementificare ancora l’Italia, riciclare invece che consumare risorse naturali, produrre prodotti che si vendono invece che quelli che restano invenduti. Come dargli torto? Tra l’altro tutte queste politiche, se ben applicate, possono contribuire a far salire il Pil, almeno nel lungo periodo,senza per questo ridurre il reddito disponibile ai cittadini. Altro che decrescita, al massimocrescita sostenibile. Certo, se fossi un ministro non assumerei Pallante come consulente se prima non mi stima l’impatto sul Pil e sull’occupazione delle sue idee, ma questo è un altro discorso.
Poi c’è il grande teorico della decrescita, il francese Serge Latouche. Ho letto il suo ultimo libro, “Per un’abbondanza frugale” (Bollati Boringhieri) e l’ho trovato, devo dire, vagamente inquietante. Tutto il volume è una risposta ai critici della decrescita e risulta assai poco convincente. In un passaggio Latouche dice che se tutti consumassimo come gli abitanti del Burkina Faso “ci sarebbe ancora un ampio margine di manovra”. E “si potrebbe arrivare fino a 23 miliardi” di abitanti senza che il pianeta collassi. Alzi la mano chi vuole vivere come in Burkina Faso. Pochi. Certo, la Terra ringrazierebbe. Ma siamo in democrazia, chi lo decide di decrescere? E soprattutto: si può dissentire o si viene costretti a decrescere? E se io voglio farmi la doccia tutti giorni invece che una volta a settimana? La polizia segreta mi entra in bagno? Sto esagerando, ma il punto è chiaro: se si intende la decrescita come una politica economica e non come una somma di scelte libere e individuali, si degenera nello stato totalitario.
Le scelte di consumo, nel mondo occidentale, sono libere. Deciderle dall’alto è possibile, ma non in una situazione di libera scelta. Questo non significa un bivio netto tra laissez faire selvaggio e totalitarismo sovietico. Ma che i consumi si possono influenzare con le tasse, gli sgravi fiscali, le politiche industriali. Possibilmente per migliorare il benessere (non necessariamente i consumi) di tutti. E non per ridurlo.
Scrive Latouche: “La decrescita è un progetto politico di sinistra, perché si fonda su una critica radicale del liberalismo, si ricollega, denunciando l’industrialismo, all’ispirazione originaria del socialismo e mette in discussione il capitalismo secondo la più stretta ortodossia marxista”. A parte la naturale diffidenza che deve suscitare l’abuso di “ismi”, è chiara la matrice culturale. E, come sosteneva Norberto Bobbio in una famosa polemica (nel libro “Quale socialismo?”, da poco ripubblicato), il marxismo non è mai riuscito a elaborare una teoria dello Stato. Men che meno della democrazia. E, in fondo, non ha mai prodotto un sistema sostenibile. Lo stesso Latouche finisce per ammettere che il suo modello è poco più di un esercizio intellettuale, lo fa in un box del libro dal titolo “la transizione”, dedicato al cruciale tema di come passare dalla società attuale a quella della “abbondanza frugale”. Dice Latouche che ci sarebbero “enormi problemi di riconversione dell’apparato produttivo”, del tipo “trasformare le industrie automobilistiche in fabbriche di cogeneratori energetici” (chissà se a parità di occupazione). E tutto questo, ovviamente, con una “ridefinizione del lavoro e l’eliminazione, quanto meno, dei suoi aspetti penosi, in attesa di una sua abolizione”. Amen.
Credo bastino questi esempi a dimostrare che le teorie della decrescita sono o di scarsa utilità o pericolose e per fortuna non vengono prese troppo sul serio, almeno nella versione di Latouche. Non ci sono idee facili per uscire da questa crisi sulle cui cause, comunque, i marxisti come Latouche un po’ di ragione ce l’hanno: non è tutta colpa della finanza, i debiti sono serviti a mantenere un livello di consumi non sostenibile nel lungo periodo.
Ma diventare tutti come il Burkina Faso non mi sembra una via d’uscita allettante.
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REPLICA DI PALLANTE:
Se fossi laureato in economia e non in lettere
Dopo avere letto il post “La decrescita totalitaria”, di Stefano Feltri, ho immaginato di essere un “economista”, ed ho fatto un paio di considerazioni. Ad esempio, se fossi laureato in economia e non in lettere, mi domanderei: chi ha governato l’economia e la finanza nei decenni passati, chi la sta governando, chi ha la responsabilità della crisi che sta sconvolgendo i paesi industrializzati, chi è incapace di trovare le misure di politica economica adeguate per uscirne: i laureati in economia o i laureati in lettere?
Se fossi laureato in economia e non in lettere, mi domanderei se è veramente desiderabile, ammesso che sia possibile, uscire dalla crisi con la ripresa della crescita di un prodotto interno lordo in cui incidono in misura significativa gli sprechi di cibo (il 3 per cento del pil), gli sprechi di energia (il 70 per cento dei consumi), gli incidenti automobilistici, il consumo di medicine, le spese di riparazione e di ripristino dei danni ambientali causati da processi produttivi finalizzati alla crescita del prodotto interno lordo, la cura delle malattie causate dalla crescita delle emissioni e delle produzioni inquinanti, la produzione di armi e le guerre.
Se fossi laureato in economia e non in lettere, non eviterei comunque di ripassare la differenza tra la congiunzione “e” e il verbo “è”, perché un conto è dire “meno e meglio” e un altro è dire “meno èmeglio”. Se per i talebani della crescita più è sempre meglio, anche quando è peggio (es.: gli sprechi di energia in un edificio mal costruito), i sostenitori della decrescita felice non pensano, né scrivono, che meno è sempre meglio, ma sanno distinguere quando lo è (es.: la riduzione dei consumi di energia in un edificio ben costruito). I talebani della crescita si limitano a usare grossolani criteri di valutazione quantitativi, i sostenitori della decrescita felice utilizzano parametri qualitativi.
Se fossi laureato in economia e non in lettere terrei in una certa considerazione l’insegnamento di un economista tra i più importanti del Novecento, John Kenneth Galbraith, che nel 1968 ha suggerito a Robert Kennedy di rivelare l’inganno dell’equazione tra crescita del Pil e crescita del benessere, perché il Pil cresce anche quando cresce la produzione di merci che peggiorano la nostra vita, come le armi, il tabacco, la riparazione delle automobili incidentate, mentre non può misurare il benessere generato da attività che non generano una compravendita, come le relazioni umane, l’autoproduzione di beni, l’economia del dono e della reciprocità.
Se fossi laureato in economia e non in lettere mi domanderei: se basta il banale buon senso per decidere di produrre cose utili invece di cose inutili o dannose, di utilizzare processi non inquinanti anziché processi inquinanti, di ridurre gli sprechi invece di incentivare un consumo dissipativo delle risorse, come mai i laureati in economia che governano l’economia e la finanza non indirizzano su questa strada gli investimenti per superare la crisi? I laureati in economia sono privi del banale buon senso?
Se fossi laureato in economia e non in lettere mi domanderei se la scelta di aumentare la produttività per far crescere il Pil e rendere le aziende più competitive sul mercato mondiale non comporti una riduzione dell’incidenza del lavoro umano per unità di prodotto e quindi una riduzione dell’occupazione e della domanda a fronte di un aumento dell’offerta; se cioè non aggravi la crisi invece di attenuarla (per non parlare della sofferenza umana di chi non ha occupazione, ma gli esseri umani per chi è laureato in economia sono semplici fattori della produzione, quello che conta è la crescita).
Se fossi laureato in economia e non in lettere, non avrei comunque nessuna ritrosia a leggere ciò che scrivono quelli che la pensano diversamente da me, perché il vero fondamento di una deriva totalitaria è proprio l’intolleranza, soprattutto quando assume l’aspetto di un tabù inviolabile da difendere con tutti i mezzi.
di Maurizio Pallante
L’indebitamento complessivo dei paesi industrializzati, rispondono gli autori del volume, è necessario per assorbire la produzione crescente di merci che altrimenti rimarrebbero invendute. In altre parole la crescita della domanda, che pure è stata costante, non è in grado di assorbire la crescita dell’offerta perché la concorrenza internazionale impone alle aziende di investire continuamente in innovazioni tecnologiche che accrescono la produttività, che consentono cioè di produrre quantità sempre maggiori di merci con un numero sempre minore di occupati.
Ma se si riduce il numero degli occupati, si riduce il numero delle persone provviste di reddito, per cui la crescita del debito è diventata indispensabile per sostenere la domanda. Il meccanismo della crescita e l’incremento della competitività sono la causa della crisi in corso. Tutti i tentativi di rilanciare la crescita e di incrementare la produttività non solo non possono consentire di superare la crisi, ma se riuscissero, contribuirebbero ad aggravarla. Questa crisi, si sostiene nel libro, non è una crisi congiunturale, ma una crisi di sistema che gli strumenti tradizionali della politica economica non sono in grado di affrontare perché se si vuole rilanciare la crescita, come viene ripetuto con la ripetitività di un mantra, non si possono non aumentare i debiti pubblici; se si vuole ridurre il debito pubblico si deprime la domanda e la crisi si aggrava. Ciò che occorre è trovare il denaro per gli investimenti senza accrescere i debiti pubblici.
Questo denaro si può ricavare soltanto dalla riduzione degli sprechi, ovvero dallo sviluppo di innovazioni tecnologiche finalizzate ad accrescere l’efficienza con cui si usano le materie prime, in particolare l’energia, e a recuperare le materie prime contenute negli oggetti dismessi, che del tutto impropriamente vengono definiti rifiuti. In altre parole occorre uscire dalla logica quantitativa nella valutazione della produzione e utilizzare criteri di valutazione qualitativi. Non proporsi di produrre di più, ma di produrre quello che serve. Per esempio, il nostro patrimonio edilizio consuma mediamente per il riscaldamento invernale il triplo dell’energia delle meno efficienti case tedesche, 200 kilowattora al metro quadrato all’anno invece di 70, e dieci volte di più delle più efficienti, che si fermano a 15.
Nella (in) cultura della crescita si diceva “quando tira l’edilizia, tutta l’economia gira”. Oggi si può pensare di uscire dalla crisi costruendo altre case, quando l’eccesso di offerta incrementa in continuazione l’invenduto? L’unica strada per rilanciare l’edilizia è la ristrutturazione energetica delle case esistenti. Se il consumo delle case scendesse dei due terzi si risparmierebbe il denaro necessario a pagare gli investimenti e ad accrescere l’occupazione senza accrescere i debiti pubblici. Ma se i consumi energetici delle nostre case si riducessero dei due terzi diminuirebbero da subito le emissioni di anidride carbonica e, una volta ammortizzati gli investimenti con la riduzione degli sprechi, diminuirebbe anche il prodotto interno lordo. Un’efficiente raccolta differenziata, finalizzata al recupero delle materie prime contenute negli oggetti dismessi, consentirebbe di risparmiare le enormi somme di denaro che vengono spese per seppellirli sotto terra o per distruggerli bruciandoli, e con il denaro risparmiato si possono sostenere i costi d’investimento e l’occupazione necessari a organizzare un’efficiente raccolta differenziata e le industrie del riciclaggio. Ma se si riutilizzano le materie prime contenute negli oggetti dismessi diminuirebbe da subito il consumo di materie prime e, una volta ammortizzati gli investimenti, diminuirebbe il prodotto interno lordo.
Per superare la crisi senza accrescere i debiti pubblici, sostengono gli autori del libro, occorre sviluppare un pensiero più evoluto di quello che si limita a perseguire la crescita della produzione in quanto tale e la crescita dell’occupazione in quanto tale. Bisogna creare occupazione in lavori utili e la cosa più utile da fare in questa crisi, che è contemporaneamente economica ed ecologica, è ridurre il consumo delle risorse e le emissioni inquinanti sviluppando le innovazioni tecnologiche che ci consentono di stare meglio riducendo i consumi inutili, perché questo è l’unico modo di recuperare il denaro necessario allo sviluppo di quelle innovazioni. Less and better.
di Maurizio Pallante
Il Fatto Quotidiano, 17 Febbraio 2012
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RISPOSTA DI FELTRI:
La decrescita totalitaria
Si parla parecchio di decrescita in questo periodo e forse è comprensibile, visto che il Pil scende un po’ ovunque e qualunque teoria che sostenga che “meno è meglio” viene vista con un interesse. Ho vinto la mia ritrosia e ho letto un po’ di cose. L’idea che mi sono fatto è che la decrescita oscilla tra due poli: quello del banale buon senso e la deriva totalitaria.
La banalità, per quanto di buon senso, è riassunta nell’articolo di Maurizio Pallante sul Fatto di oggi. Pallante non è un economista, stando a Wikipedia è laureato in lettere, quindi non cita dati o ricerche a sostegno delle sue tesi. Che però mi sembrano comunque convincenti, anche se non certo originali: meglio favorire le ristrutturazioni edilizie che fanno risparmiare energia invece che cementificare ancora l’Italia, riciclare invece che consumare risorse naturali, produrre prodotti che si vendono invece che quelli che restano invenduti. Come dargli torto? Tra l’altro tutte queste politiche, se ben applicate, possono contribuire a far salire il Pil, almeno nel lungo periodo,senza per questo ridurre il reddito disponibile ai cittadini. Altro che decrescita, al massimocrescita sostenibile. Certo, se fossi un ministro non assumerei Pallante come consulente se prima non mi stima l’impatto sul Pil e sull’occupazione delle sue idee, ma questo è un altro discorso.
Poi c’è il grande teorico della decrescita, il francese Serge Latouche. Ho letto il suo ultimo libro, “Per un’abbondanza frugale” (Bollati Boringhieri) e l’ho trovato, devo dire, vagamente inquietante. Tutto il volume è una risposta ai critici della decrescita e risulta assai poco convincente. In un passaggio Latouche dice che se tutti consumassimo come gli abitanti del Burkina Faso “ci sarebbe ancora un ampio margine di manovra”. E “si potrebbe arrivare fino a 23 miliardi” di abitanti senza che il pianeta collassi. Alzi la mano chi vuole vivere come in Burkina Faso. Pochi. Certo, la Terra ringrazierebbe. Ma siamo in democrazia, chi lo decide di decrescere? E soprattutto: si può dissentire o si viene costretti a decrescere? E se io voglio farmi la doccia tutti giorni invece che una volta a settimana? La polizia segreta mi entra in bagno? Sto esagerando, ma il punto è chiaro: se si intende la decrescita come una politica economica e non come una somma di scelte libere e individuali, si degenera nello stato totalitario.
Le scelte di consumo, nel mondo occidentale, sono libere. Deciderle dall’alto è possibile, ma non in una situazione di libera scelta. Questo non significa un bivio netto tra laissez faire selvaggio e totalitarismo sovietico. Ma che i consumi si possono influenzare con le tasse, gli sgravi fiscali, le politiche industriali. Possibilmente per migliorare il benessere (non necessariamente i consumi) di tutti. E non per ridurlo.
Scrive Latouche: “La decrescita è un progetto politico di sinistra, perché si fonda su una critica radicale del liberalismo, si ricollega, denunciando l’industrialismo, all’ispirazione originaria del socialismo e mette in discussione il capitalismo secondo la più stretta ortodossia marxista”. A parte la naturale diffidenza che deve suscitare l’abuso di “ismi”, è chiara la matrice culturale. E, come sosteneva Norberto Bobbio in una famosa polemica (nel libro “Quale socialismo?”, da poco ripubblicato), il marxismo non è mai riuscito a elaborare una teoria dello Stato. Men che meno della democrazia. E, in fondo, non ha mai prodotto un sistema sostenibile. Lo stesso Latouche finisce per ammettere che il suo modello è poco più di un esercizio intellettuale, lo fa in un box del libro dal titolo “la transizione”, dedicato al cruciale tema di come passare dalla società attuale a quella della “abbondanza frugale”. Dice Latouche che ci sarebbero “enormi problemi di riconversione dell’apparato produttivo”, del tipo “trasformare le industrie automobilistiche in fabbriche di cogeneratori energetici” (chissà se a parità di occupazione). E tutto questo, ovviamente, con una “ridefinizione del lavoro e l’eliminazione, quanto meno, dei suoi aspetti penosi, in attesa di una sua abolizione”. Amen.
Credo bastino questi esempi a dimostrare che le teorie della decrescita sono o di scarsa utilità o pericolose e per fortuna non vengono prese troppo sul serio, almeno nella versione di Latouche. Non ci sono idee facili per uscire da questa crisi sulle cui cause, comunque, i marxisti come Latouche un po’ di ragione ce l’hanno: non è tutta colpa della finanza, i debiti sono serviti a mantenere un livello di consumi non sostenibile nel lungo periodo.
Ma diventare tutti come il Burkina Faso non mi sembra una via d’uscita allettante.
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REPLICA DI PALLANTE:
Se fossi laureato in economia e non in lettere
Dopo avere letto il post “La decrescita totalitaria”, di Stefano Feltri, ho immaginato di essere un “economista”, ed ho fatto un paio di considerazioni. Ad esempio, se fossi laureato in economia e non in lettere, mi domanderei: chi ha governato l’economia e la finanza nei decenni passati, chi la sta governando, chi ha la responsabilità della crisi che sta sconvolgendo i paesi industrializzati, chi è incapace di trovare le misure di politica economica adeguate per uscirne: i laureati in economia o i laureati in lettere?
Se fossi laureato in economia e non in lettere, mi domanderei se è veramente desiderabile, ammesso che sia possibile, uscire dalla crisi con la ripresa della crescita di un prodotto interno lordo in cui incidono in misura significativa gli sprechi di cibo (il 3 per cento del pil), gli sprechi di energia (il 70 per cento dei consumi), gli incidenti automobilistici, il consumo di medicine, le spese di riparazione e di ripristino dei danni ambientali causati da processi produttivi finalizzati alla crescita del prodotto interno lordo, la cura delle malattie causate dalla crescita delle emissioni e delle produzioni inquinanti, la produzione di armi e le guerre.
Se fossi laureato in economia e non in lettere, non eviterei comunque di ripassare la differenza tra la congiunzione “e” e il verbo “è”, perché un conto è dire “meno e meglio” e un altro è dire “meno èmeglio”. Se per i talebani della crescita più è sempre meglio, anche quando è peggio (es.: gli sprechi di energia in un edificio mal costruito), i sostenitori della decrescita felice non pensano, né scrivono, che meno è sempre meglio, ma sanno distinguere quando lo è (es.: la riduzione dei consumi di energia in un edificio ben costruito). I talebani della crescita si limitano a usare grossolani criteri di valutazione quantitativi, i sostenitori della decrescita felice utilizzano parametri qualitativi.
Se fossi laureato in economia e non in lettere terrei in una certa considerazione l’insegnamento di un economista tra i più importanti del Novecento, John Kenneth Galbraith, che nel 1968 ha suggerito a Robert Kennedy di rivelare l’inganno dell’equazione tra crescita del Pil e crescita del benessere, perché il Pil cresce anche quando cresce la produzione di merci che peggiorano la nostra vita, come le armi, il tabacco, la riparazione delle automobili incidentate, mentre non può misurare il benessere generato da attività che non generano una compravendita, come le relazioni umane, l’autoproduzione di beni, l’economia del dono e della reciprocità.
Se fossi laureato in economia e non in lettere mi domanderei: se basta il banale buon senso per decidere di produrre cose utili invece di cose inutili o dannose, di utilizzare processi non inquinanti anziché processi inquinanti, di ridurre gli sprechi invece di incentivare un consumo dissipativo delle risorse, come mai i laureati in economia che governano l’economia e la finanza non indirizzano su questa strada gli investimenti per superare la crisi? I laureati in economia sono privi del banale buon senso?
Se fossi laureato in economia e non in lettere mi domanderei se la scelta di aumentare la produttività per far crescere il Pil e rendere le aziende più competitive sul mercato mondiale non comporti una riduzione dell’incidenza del lavoro umano per unità di prodotto e quindi una riduzione dell’occupazione e della domanda a fronte di un aumento dell’offerta; se cioè non aggravi la crisi invece di attenuarla (per non parlare della sofferenza umana di chi non ha occupazione, ma gli esseri umani per chi è laureato in economia sono semplici fattori della produzione, quello che conta è la crescita).
Se fossi laureato in economia e non in lettere, non avrei comunque nessuna ritrosia a leggere ciò che scrivono quelli che la pensano diversamente da me, perché il vero fondamento di una deriva totalitaria è proprio l’intolleranza, soprattutto quando assume l’aspetto di un tabù inviolabile da difendere con tutti i mezzi.
di Maurizio Pallante